Credere significa avere il senso di Dio

L’editoriale di don Paolo Sottopietra ci invita ad approfondire il nostro rapporto personale con Dio

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Educare alla fede è uno dei compiti fondamentali di un missionario. Questa responsabilità ci porta vicini al punto più intimo del cuore delle persone, in cui ciascuno sente la sua irripetibile chiamata e risponde. È una responsabilità che richiede umiltà e vigilanza.
Quello con Dio non è un rapporto fra tanti. L’appello che ci arriva da lui non è sullo stesso piano delle tante sollecitazioni a cui siamo esposti ogni giorno. Credere significa partecipare all’evento di un legame totalizzante, unico e senza paragoni, che reclama tutto il nostro cuore e tutte le nostre forze, come è scritto nel passo del Deuteronomio che Gesù stesso ha sottolineato. La fede, insomma, inizia a diventare in noi un’esperienza veramente personale quando ci comunica il senso dell’unicità di Dio e della pretesa con cui egli ci interpella.

Voglio indicare tre aspetti importanti del senso dell’unicità di Dio proprio dell’uomo che crede.
Il primo è chiamato dalla Chiesa santo timore di Dio. Se ne parla poco, e forse la stessa espressione ci appare antiquata. Esso è invece una dimensione essenziale di una fede vissuta. Potremmo descriverlo come la consapevolezza matura del fatto che Dio è veramente Dio, cioè infinitamente più grande di noi.
Il timore di Dio non è paura di lui o dei suoi castighi. Come ha scritto il cardinal Newman, questa parola indica quei sentimenti che palpiterebbero in noi, e con forte intensità, se ci rendessimo conto della sua presenza.
Un secondo aspetto è il senso della sacramentalità della Chiesa e della funzione che in essa hanno gli uomini che la guidano. Anche questa realtà è troppo spesso taciuta, a volte per vergogna. È invece necessario sottolinearla, se vogliamo educare a un’esperienza della fede non sentimentale. Le lezioni di don Giussani che sono confluite nel volume intitolato Perché la Chiesa riprendono questo tema con insistenza e con grande sapienza pedagogica.

Quello con Dio non è un rapporto fra tanti. L’appello che ci arriva da lui non è sullo stesso piano delle tante sollecitazioni a cui siamo esposti ogni giorno.

Fede e obbedienza si fecondano reciprocamente e si radicano, ancora una volta, nell’evidenza che Dio è più grande di noi. Attraverso la realtà umana della Chiesa la volontà di Dio si comunica a volte in modo radicalmente diverso da ciò che ci aspetteremmo, e proprio in questo modo si manifesta più chiaramente come divina.
Infine, il senso dell’unicità di Dio porta con sé il senso dell’unicità della persona umana.
Svolgendo il nostro compito, siamo spesso testimoni di scelte difficili, a volte perfino eroiche. Veniamo in contatto con persone e famiglie che si lasciano condurre dalla fede a vivere con letizia enormi sacrifici. Abbiamo il privilegio di aiutare i giovani a riconoscere i segni della chiamata di Dio e ad accoglierla, di sostenerli nel desiderio di vivere gli affetti che li coinvolgono in obbedienza a Dio, e godiamo dell’entusiasmo che questo genera in loro. Altre volte incontriamo persone che, pur essendo credenti, si chiudono ai sacramenti e alla preghiera per molto tempo, sotto la pressione di un dolore che sembra loro troppo duro da portare, o perché hanno commesso gravi peccati. C’è chi, proprio negli anni delle sue migliori energie, vive quasi dimenticando che dipende in ogni istante da qualcuno di più grande, e investe tutto nella ricerca di cose che finiranno per deluderlo, fossero anche gli affetti familiari o il successo nel lavoro.

Immergendoci in queste situazioni per fare compagnia alle persone che ci sono affidate o per dire una parola che orienti la loro vita verso Dio, ci è chiesto di parlare e agire, noi per primi, consapevoli di essere davanti a lui. Ci è chiesto cioè di avere il senso costante della sua presenza. È Dio, prima di noi, colui che suggerisce, pazienta, o attira con discrezione il cuore dell’altro. È ancora Dio che scuote, richiama, corregge attraverso le circostanze della vita. Spesso capiamo che egli vuole servirsi di un nostro gesto o di una nostra parola, e allora non possiamo tirarci indietro. Anche in questi casi avvertiamo tuttavia che la persona che ci sta davanti, qualunque sia la sua situazione psicologica o morale, è coinvolta in un dialogo che ci supera e ci impone un sommo rispetto.
Nelle nostre case cerchiamo di educarci costantemente a questo sguardo verginale. La fede ci richiama a considerare il rapporto che ciascuno vive con la presenza misteriosa di Dio nella sua vita con un atteggiamento di venerazione. È una realtà inviolabile, e a noi è dato il compito di servirla.

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